Alla Memoria

presentazione

Da Roma ad Altivole

I Romani, nel rispetto della Legge delle Dodici Tavole (451 -450 a. C.), confermata dal Codice di Teodosio (438 d.C.), seppellivano i loro morti (cremati, inumati, raramente mummificati) al di fuori delle aree urbane. Lo scopo era chiaro: proteggere la salute dei vivi.

Con l’inizio delle persecuzioni in Africa e in Spagna (Ill IV secolo) si fece strada l’idea che una sepoltura accanto ai martiri giovasse alla salvezza dei defunti, fra gli esempi anche quello di san Paolino (354-431) che fece trasportare il corpo del figlio presso le tombe dei martiri d’Accole (Spagna), perché fosse loro associato e potesse “attingere quella virtù che purifica le […] anime, come il fuoco”.

Col trascorrere del tempo questi cimiteri ad sanctos furono affiancati da una abazia di monaci o inglobati direttamente in una chiesa. Cresciuti così in fama e consistenza cominciarono ad essere meta di pellegrinaggi.

Poi i sobborghi delle città li raggiunsero assimilandoli, nonostante la contrarietà di personaggi come san Giovanni Crisostomo (354?-40“) che intimava: “Guardati dall’innalzare una tomba in città […] tu deponi i corpi sulle membra di Cristo.”

I morti erano sistemati un po’ dovunque (muri perimetrali, porticati, sotto le grondaie ecc.). Negli altri spazi i vivi assistevano a prediche, ricevevano i sacramenti nelle feste solenni, partecipavano a processioni nei cortili.

Presenti fino al IV secolo, le iscrizioni che ricordavano i defunti divennero rare nel V e poi lentamente scomparvero per ricomparire nel XII secolo quando illustrarono, con brevità, chierici e personalità di spicco.

In tutti gli altri casi i defunti erano sepolti in grandi fosse comuni, chiuse una volta sature e riaperte per estrarne le ossa da stivare in appositi ossari.

Assegnazioni, riesumazioni e ricollocazioni erano decise sempre da autorità ecclesiastiche poiché qualsiasi spoglia mortale affidata alla Chiesa restava della Chiesa in attesa della Seconda Venuta, dopo la quale si sarebbero svegliati nella Gerusalemme Celeste.

Nel XIII secolo iniziò l’uso di targhe fissate al luogo che era stato di un defunto in qualche modo illustre e i cui resti erano stati trasferiti negli ossari.

L’usanza stipò letteralmente alcune chiese. In Francia fu rispettata per secoli tanto che era ancora utilizzata nel Settecento. Su queste targhe (al massimo 20×40) potevano comparire, oltre ad una breve iscrizione, l’effigie dello scomparso, il santo protettore e una scena sacra.

Tra il XII e il XIII secolo, periodo in cui furono fondati i primi ordini mendicanti, i lasciti testamentari si moltiplicarono. Il testatore devolveva parte delle sue ricchezze all’ordine che ne accoglieva le spoglie assicurando preghiere e messe in suffragio.

Sui sepolcri, costruiti con materiali scelti e poi lavorati da artigiani specializzati, comparvero effigi realistiche, compresi» il volto del testatore ricavato in cera dopo il trapasso.

Tra il XIV e il XX I secolo le sepolture di persone eminenti e dotate di censo sostanzioso sono sempre più visibili e accompagnate da vere e proprie notizie biografiche.

È il tempo dei funerali organizzati con pompa, in cui scompaiono i parenti e sono presenti dolenti pagati, i rappresentanti degli ordini mendicanti e molti poveri. Tutti sono incappucciati e coperti da una lunga veste nera.

Nel secolo del barocco, il Seicento, i sepolcri dei ricchi acquistarono un’evidenza ancora maggiore. Il defunto, sempre più personalizzato, compare anche due volte tra i preziosi materiali della sua dimora. E se il lavoro è affidato ad artigiani capaci e originali il risultato supera i confini dell’ovvio per approdare a quelli dell’arte.

Nel secolo dei Lumi, il Settecento, il problema delle sepolture nei luoghi pubblici si pone con urgenza e i medici sono sempre più intransigenti con chi assiste a un trapasso. Può capitare infatti che al capezzale del morente ci siano, oltre al sacerdote con il viatico, anche estranei che l’hanno seguito per strada.

Così il dibattito sulla questione, accesosi in Francia dove si sta pubblicando l’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert (1751 -1772), si trasforma in una decisione politica col Decreto sulle sepolture varato dai Parlamento di Parigi che ne stabilisce, non senza polemiche, il trasferimento fuori città (21 maggio 1765).

E si capisce: la decisione cancella abitudini e modi di pensare più che secolari. Ma indietro non si torna. Seguono intatti a tamburo battente la Dichiarazione del redi Francia, che vieta le sepolture nelle chiese e nelle città (1776), la distruzione del Cimitero degli Innocenti (1785-1787) e infine il Decreto imperiale sulle sepolture(Editto di Saint-Cloud, 1804). che sancisce la nascita dei cimiteri moderni.

L’editto è poi esteso da Napoleone Bonaparte alla nostra penisola (5 settembre 1806) e suscita un grande dibattito tra gli intellettuali, fra cui Ugo Foscolo che l’anno seguente pubblica il suo Dei Sepolcri.

In sintesi il documento proibisce ogni sepoltura nelle chiese, ordina che i vecchi cimiteri siano chiusi e che ne vengano costruiti di nuovi, intima che nelle aree in questione, protette da un ininterrotto muro di cinta alto almeno 2 metri, siano costruite sepolture tutte uguali, ne prevede misure e distanze e concede deroghe a chi acquista un’arca per sé o per la famiglia.

La novità lascia il segno, ma non viene immediatamente attuata, come a Conegliano dove, dopo un comprensibile sbandamento dovuto alla caduta del regime francese e alla sua immediata sostituzione con l’austriaco (1813), il cimitero è allestito nell’attuale piazzale del Castello e nei suoi giardini (1827). E qui si trovava ancora quando il primo convoglio della linea Venezia-Vienna fece tappa alla stazione durante il viaggio inaugurale (1855).

Anno di svolta questo 1855. in cui già si pensa a uno sviluppo agro-turistico della città e quel cimitero sul colle, appena sotto il castello da poco restaurato ( 1839), non incentiva certo la permanenza di chi cerca quiete, frescura e panorami.

Ciò nonostante il definitivo spostamento in località San Giuseppe avviene solamente nel 1886-87, dopo una interminabile discussione in cui entrano, tra l’altro, la chimica dei terreni e la direzione dei venti.

I cimiteri della nostra zona, come altri, furono lo specchio di tradizioni sedimentate e di tendenze edilizie di un’epoca in cui si erano mescolati diversi regimi: il francese, l’austriaco e l’italounitario.

Inoltre gli amministratori locali non furono mai sfiorati dalla discussione che occupò esperti del settore calati nello spirito romantico fin dopo l’Unità (1861).

Troppo piccole queste nostre comunità per discutere se fosse meglio il grande cimitero-giardino di tipo anglosassone o il “costruito”, a struttura monumentale, quasi sempre magniloquente, con cortili spaziosi e porticati in cui inserire cappelle e singole tombe.

Si trattava del resto di modeste aggregazioni comunali a caratteristica rurale, con borghesia limitata e nobiltà esigua dove, a parte qualche facoltoso proprietario terriero, le eminenze erano rappresentate dal parroco, dal medico, dalla maestra e dal segretario comunale.

Quanto all’antica sacralità dei luoghi, dopo il colpo mortale infertole dall’editto di Saint-Cloud, essa non si riprese mai del tutto, recuperando solo durante il primo dopoguerra in cui fu tenuto vivo il culto per gli eroi della Vittoria.

Tale culto – come dimostrano alcune iscrizioni su lapidi dettate nel Ventennio e oggi ancora presenti in qualche cimitero della Sinistra Piave – rimase vivo fino alla seconda guerra mondiale.

A ben guardare sembrerebbero oggi in declino anche le tradizionali simbologie cristiane (gli angeli, la croce ecc.) un tempo irrinunciabili “corredi” di ogni lastra tombale.

Mancano poi in generale certe atmosfere ancora presenti nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, atmosfere che accoglievano i visitatori solitari o la sollecitudine delle comunità in pellegrinaggio nei giorni solenni dedicati ai defunti. Anche le nuove sistemazioni paiono rispondere più a un criterio di praticità e di razionalità, che a un necessario raccoglimento in “memoria”.

Si aggiunga che oggi, nel pensiero di molti, e ormai prevalente l’idea della cremazione, soluzione considerata meno impegnativa della tumulazione, perché più pratica e definitiva.

Quanto allo stile vi sono casi in cui l’originalità e l’estetica si fanno desiderare in chi progetta e in chi esegue tombe, vialetti, loculi-alveari ecc., il tutto calato in una quasi assenza di vegetazione ristoratrice come e quella degli alberi.

All’interno delle aree cimiteriali pare di vedere talvolta la stessa mano che appena più in là ha progettato strade, piazze, villette a schiera, condomini.

Se c’è, oggi, un’idea del sacro, essa resta ben nascosta, intrappolata dalla velocità con cui pensiamo, realizziamo e corriamo in avanti abbandonando, col passato, anche una parte di noi stessi.

Forse anche i cimiteri dovrebbero essere assegnati a chi ha speranza, cioè a coloro che credono che l’appiattimento e la resa siano ancora superabili.

Diverso è infatti un camposanto dove un artista, sciolto da ogni convenzione, chiede aiuto alla tradizione e contemporaneamente innesta nelle sue linfe il nuovo, mescolando religiosità e sorvegliata laicità, cultura a trecentosessanta gradi e desiderio di innovare.

È appena il caso di ricordare la realizzazione di Altivole dove Carlo Scarpa, nella cosiddetta Tomba Brion, ha consegnato alla storia uno dei suoi capolavori.

Qui tutto è chiaro, alto e in certi punti altissimo, talmente alto che per visitare questo riuscito esempio di moderna sacralità, convergono in quel cimitero visitatori da tutto il mondo.

Una grande astronave e in attesa ad Altivole: un’ala di eternità concepita per suggerire l’imminente ascensione al Celeste dei coniugi Brion. E chi la percepisce coglie anche la tensione tra i due sposi. Non morti, no, ma dormienti, se le due urne, quasi due culle, leggermente inclinate l’una verso l’altra, sembrano cercarsi.

Prima che tutto vortichi e ruoti e premi, in un attimo, la fedeltà ai legami in un di là che, suggerito come diverso, si intuisce in qualche modo felice.

Qui, all’interno di questo fortino costruito in cemento armato, non ci sono angeli, ma il sublime è nell’essenziale e nel perfetto. E tutto è sorvegliato giardino e studiatissimo disegno: un chiamarsi di acque e terra alla presenza del cielo in un silenzio intenso, operoso e commovente, stretto tra la campagna e le stelle.

 

Luciano Caniato

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