San Giorgio

alla memoria

Il cimitero di San Giorgio

È un piccolo cimitero quello che circonda la chiesa di San Giorgio. Ordinato, rinchiuso da un muro di cinta, accoglie delle vecchie lapidi che mantengono vivo il ricordo di chi ha lasciato questa terra. Alcune risalgono agli anni Sessanta, altre sono segnate dal tempo, corrose dalle intemperie, rese illeggibili da muffe e licheni.

Di alcune tombe c’è solo la traccia, il frammento di un piccolo angelo in lamiera arrugginita, alcuni pezzi di pietra antica vicino a un cumulo di ghiaino. Altre conservano il ricordo del defunto cementate su una parete esterna della chiesa o sul muro di cinta, come la lapide in marmo di Vittorio Fantuzzi, che riporta un’invocazione della famiglia a Dio: “Pietoso Gesù Signore, dona il riposo eterno all’anima benedetta di Fantuzzi Vittorio, che per bontà di cuore visse amato da quanti venne conosciuto. Morì cristianamente lasciando preziosa eredità di virtù e affetti. La dolente moglie, i figli tutti implorano una prece. Posero, San Polo di Piave 6 ottobre 1869”.

L’ultima sepoltura effettuata nella terra benedetta di San Giorgio è quella di Rosa Menegus in Tonello ed è datata 1967. Dopo di allora la Soprintendenza alle Belle Arti, forte di un pronunciamento del 1904, col quale il Regio Ministero della Pubblica Istruzione riconosceva alla chiesa di San Giorgio lo status di “Monumento Nazionale”, vietò espressamente l’inumazione in terra, anche per evitare che i sali prodotti dal disfacimento dei corpi intaccassero le murature e, conseguentemente, anche i preziosi affreschi.

Tra le lapidi ce n’è una che ricorda il nobile Domenico Cesana, arrivato da Serravalle nella borgata di San Giorgio, col padre Matteo, per alloggiare in un palazzotto secentesco, poco distante dalla chiesa. Morì di colera durante l’epidemia che, nel 1873, interessò anche il Regno Lombardo Veneto.

“Di violento morbo rapito”, recita la lapide di Domenico Cesana, assessore anziano della giunta municipale guidata dal sindaco Padovani, primo dei sette casi di colera avvenuti in paese, una epidemia sedata con l’immediata sepoltura dei corpi, senza nemmeno celebrare i funerali.

Tra i vialetti inghiaiati del sagrato ci sono numerose piante di crisantemo che fioriscono in autunno, proprio quando si avvicina la ricorrenza dei defunti, e danno una pennellata di colore a un luogo che, proprio al colore degli affreschi e alle immagini simboliche contenute nella chiesa di San Giorgio, deve la sua notorietà.

Di antichissima origine, la chiesa di San Giorgio arriva fino a noi conservando ampi tratti della bellezza originaria, sopravvivendo, almeno in parte, alla Grande Guerra che, lungo il Piave, ha portato morte e distruzione ovunque.

La chiesa è di origine preromana e sorge nei pressi del tracciato della via che da Oderzo portava a Trento. Al suo interno si possono ammirare numerose opere d’arte e testimonianze del passato, tra le quali va annoverato il sarcofago di epoca pre longobarda, che ora sostiene l’altare. Alle pareti, alcuni affreschi rappresentano San Giorgio, altri San Sebastiano, San Bernardino, San Giacomo, Sant’Antonio Abate, San Rocco, San Martino, la Madonna col Bambino, ma il più importante e conosciuto è quello dell’ultima cena, opera del pittore Giovanni di Francia, datata 1466.

Tale affresco occupa buona parte della parete della chiesa posta a Nord. È ricco di simboli e di dettagli, come gli ormai famosi gamberi, i pesci, il vino rosso e il pane sparso sulla tavola in abbondanza, che sono riportati analiticamente nel libro di Giorgio Fossaluzza “La chiesa di San Polo di Piave e gli affreschi di Giovanni di Francia”, edito dal Gruppo per San Giorgio, reperibile anche presso la stessa chiesa.

La ricchezza compositiva dell’affresco pone Cristo al centro e undici apostoli allineati, in piedi, sullo stesso lato della tavola, mentre il dodicesimo, Giuda, si trova dall’altra parte e ha in mano il sacchetto delle monete, prova del tradimento. Una grande iscrizione in latino ricorda i nomi dei sacerdoti che hanno voluto quest’opera d’arte nella chiesa di San Giorgio, ma sono le immagini a parlare al popolo dei devoti, un popolo che non sapeva né leggere né scrivere.

Dei cinque affreschi dell’ultima cena, presenti nella Marca Trevigiana (San Polo, Susegana, Mareno di Piave, Rugolo e Museo del Castello di Conegliano, opera proveniente dalla chiesa di Saccon di San Vendemiano), dove sulla tavola compaiono i gamberi, quello della Chiesa di San Giorgio è l’unico a conservare la sua integrità nel luogo dove è stato dipinto.

Di violento morbo rapito”, recita la lapide di Domenico Cesana, assessore anziano della giunta municipale guidata dal sindaco Padovani, primo dei sette casi di colera avvenuti in paese, una epidemia sedata con l’immediata sepoltura dei corpi, senza nemmeno celebrare i funerali.
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